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STORIE DAL SERVIZIO CIVILE

I MIEI TRE MESI IN ETIOPIA

L’Etiopia è un paese che rapisce.
Non con la forza, ma con la lentezza di ciò che si fa scoprire poco a poco. Ti avvolge con i suoi colori, con la luce che sembra sempre più vicina al suolo, con i profumi del caffè tostato e della terra dopo la pioggia. Ma non si concede subito. L’Etiopia accoglie sì, ma chiede rispetto, curiosità, pazienza. Bisogna imparare a guardarla senza giudizio, a darle il tempo di insinuarsi sotto la pelle. E quando ci riesce, è difficile liberarsene.

 

Mi chiamo Federica Orlandini, ho 28 anni e sono fiorentina. Da quattro mesi Addis Abeba è la mia casa: qui sto svolgendo il mio Servizio Civile Universale con CIFA ETS, un’esperienza che mi sta cambiando più di quanto immaginassi.
Non avrei mai pensato, prima di trasferirmi, che un giorno avrei chiamato questo paese casa. Anche perché, diciamolo, l’immagine che in Occidente abbiamo dell’Etiopia è filtrata da una narrazione sbagliata, distorta e a dir poco parziale.

Si tende a pensare che l’Africa sia solo deserto e villaggi, ma Addis Abeba è tutt’altro: una metropoli viva, in continuo fermento, che cresce a un ritmo vertiginoso in una corsa verso il futuro che lascia inevitabilmente indietro chi non riesce a tenere il passo. È una città che offre molto, ma che chiede altrettanto. Ma dopotutto, quale grande città non vive di contrasti? La differenza, semmai, è che qui le contraddizioni sono visibili, nude sotto la luce del sole. Non c’è la patina di perfezione tipica dell’Occidente, quella tendenza a nascondere le crepe sotto un tappeto di apparenze. L’Etiopia, nella sua durezza, è autentica, vera.

La disuguaglianza si percepisce appena si mette piede in città: da un lato della strada, una madre con i figli chiede l’elemosina; dall’altro, un centro commerciale luccicante, pieno di vetrine e clienti benestanti. Da una parte, i palazzi moderni e le strade illuminate da lampioni eleganti; dall’altra, baracche di lamiera e strade polverose dove i bambini giocano scalzi. È una città di opposti che convivono senza maschere, come se la contraddizione fosse parte stessa della sua identità.

 

          

 

Il mio primo impatto con Addis non è stato semplice.
Lo chiamano shock culturale, ma per me è stato soprattutto un senso di smarrimento. Tutto era diverso: i suoni, i ritmi, il modo di comunicare, persino il silenzio. Eppure quel disorientamento iniziale si è presto trasformato in curiosità, poi in affetto. Le persone che ho incontrato mi hanno accolta con una gentilezza disarmante — non quella formale e distaccata, ma quella fatta di piccoli gesti, di sorrisi sinceri e di attenzioni quotidiane. Gli etiopi sono così: autentici, diretti, incapaci di fingere. Parlano con il cuore, senza convenevoli o maschere superflue. In ufficio, fin dal primo giorno, ho sentito un calore umano che raramente ho percepito altrove. Ricordo la prima volta che i miei colleghi mi hanno fatto un gursha — quel gesto in cui ti imboccano con le mani, simbolo di affetto e fiducia. Un momento semplice ma carico di significato, che all’improvviso mi ha fatta sentire parte di qualcosa.

Anche il cibo è presto diventato una scoperta continua. L’injera, con la sua consistenza spugnosa e i sapori speziati, mi ha insegnato un altro modo di condividere: mangiare insieme dallo stesso piatto, senza barriere, è un gesto di comunità che in Occidente abbiamo dimenticato. Quelle spezie che all’inizio trovavo troppo forti oggi sono diventate un conforto, un sapore che sa di casa. E poi la cultura, la musica, le danze tradizionali: tutto vibra di un’energia antica e contagiosa. Inoltre studiare la lingua locale – l’amarico – mi sta permettendo di avvicinarmi ancora di più a questo paese e alla sua gente. È un modo di integrarsi che per me è necessario quando si vive all’estero, un segno di rispetto, ma anche una forma d’amore.

Ad esempio, riuscire a scambiare qualche parola con un bambino o un driver non solo è soddisfacente, ma a volte basta affinché nasca un piccolo legame; loro mi insegnano con pazienza, correggono i miei errori con una risata, e io cerco di contribuire con qualche frase in inglese o in italiano. Sono scambi semplici sì, ma pieni di umanità.

 

     

 

Non avevo mai lavorato nella cooperazione prima, ma questa esperienza mi sta cambiando in modi che non avevo previsto. Ogni giorno mi mette di fronte a realtà che, fino a poco tempo fa, conoscevo solo attraverso statistiche o reportage. Ora, invece, quei numeri hanno volti, nomi, storie. Mi sta insegnando che “fare la differenza” non è un gesto eroico, ma una somma di piccoli passi, di attenzioni quotidiane, di sforzi spesso invisibili. Seguire i progetti, conoscere i beneficiari, vedere come le loro vite si trasformano un po’ alla volta è una lezione di umiltà continua – ricorda, ad esempio, quanto siamo abituati a dare per scontato ciò che, per altri, non lo è affatto. C’è tanto lavoro d’ufficio, documenti, riunioni, monitoraggi, ma dietro ogni foglio c’è una persona reale ed è questo che dà senso a tutto. Visitare le scuole beneficiarie dei progetti, parlare con gli insegnanti, incontrare i bambini e le loro famiglie durante gli eventi di distribuzione dei sussidi… sono momenti che ti restano addosso. È in quelle occasioni, soprattutto, che sento che sto contribuendo a qualcosa di più grande, che il mio lavoro — per quanto piccolo — ha un peso, un significato concreto.

Tra le altre cose, questa esperienza mi sta insegnando non solo a guardare la realtà da prospettive nuove, ma anche a restare presente, ad accettare la complessità del mondo senza voltarmi dall’altra parte e senza la pretesa di voler capire tutto.

 

     

 

L’Etiopia, infatti, resta un paese sfuggente.
Cambia di continuo: interi quartieri vengono demoliti e ricostruiti, le strade cambiano volto da un giorno all’altro, famiglie intere vengono ricollocate, numeri di telefono vengono persi all’improvviso… È un luogo che ti obbliga a vivere nel presente, ad accettare l’imprevisto come parte naturale della giornata.
Un paese pieno di potenziale — non solo per la sua terra, ma per le persone che la abitano. E poi c’è quel famoso Mal d’Africa, che ora capisco davvero. Non è nostalgia, è qualcosa di più profondo, più viscerale. È la consapevolezza che un pezzo di te resterà qui, tra le strade di Addis, tra le mani che ti hanno accolto, tra le colline che si tingono d’oro al tramonto. E sai che, ovunque andrai, l’Etiopia non ti lascerà mai davvero.

 

 

Federica Orlandini

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